Cosa si prova guardando negli occhi dei pazienti costretti a letto durante l’emergenza COVID-19? Spesso potremmo essere portati a catalogare la sofferenza come sofferenza per quello che è. Tra le qualità professionali e morali di un infermiere c’è invece quella di ascoltare. Immedesimarsi nell’altro per scoprire cosa stia provando.

Questa emergenza ci ha infatti tolto notevoli punto di riferimenti spazio – temporali. Non ha invece ridotto la dose di coraggio e di mettersi in gioco che questa professione porta con sé. Il periodo dell’emergenza lo ha dimostrato. L’infermiere è un mestiere coraggioso.

Massimiliano Toro
, infermiere professionale presso una Casa di Cura Polispecialistica del Gruppo, ha vissuto quasi due mesi in diverse strutture italiane ai tempi del COVID-19. In questo articolo della nostra rassegna ha aperto la sua memoria e il suo cuore raccontandoci esperienze ed episodi significativi di quei momenti.

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Da quanti anni sei infermiere?

“Svolgo questo mestiere da circa  23 anni”

Che cos’è per te un infermiere?

“A mio avviso è una persona qualificata che opera per il bene di chi ha più bisogno”


Qual è stato il momento più significativo del tuo percorso?

“Non c’è un solo momento, ci sono molti momenti: dettagli che coincidono sempre con una crescita o una evoluzione personale e professionale. Per me i due aspetti coincidono: l’ascolto dell’altro sofferente e morente, e l’atto di stringere le mani e accarezzarle il viso, o ascoltarla come un figlio. Le persone che muoiono hanno bisogno di amore intorno e in questo momento la morte è stata espulsa dalla realtà”


Qual è invece l’aspetto di te stesso che hai messo con più convinzione in questo lavoro? 

“Non si tratta di un solo aspetto ma di tutta la mia vita. Ho messo la mia vita a disposizione degli altri”

 

Definisci questo lavoro con 3 aggettivi.

“Provo con 3 sostantivi. La pazienza, l’umiltà ed il rispetto. La pazienza in quanto sono al servizio di chi soffre. L’umiltà è un valore importante perché da solo non puoi fare tutto. Ho bisogno dell’equipe, di conoscere i miei limiti e sapere che siamo una squadra. Il rispetto perchè dietro ad una persona che soffre c’è tutta la storia che porta con sé, ed è nostro dovere rispettarla”


Un tuo pregio e un tuo difetto quando indossi quella “divisa”?

“Il mio pregio è avere ancora passione verso il mio lavoro. Il mio difetto è che mi emoziono di fronte alla sofferenza, non riesco ad essere impassibile. Uno degli episodi più struggenti che mi sia capitato è stato quando un’educatrice ha cercato di incoraggiare una paziente ad aprire gli occhi durante una videochiamata con la figlia. Faceva fatica, ma continuava a spronarla per farcela. Mi sono molto emozionato”

 

Cosa significa la parola fiducia per un infermiere?

“La fiducia è fondamentale in quanto rappresento una categoria importante dove l’appartenenza alla divisa conta. La divisa non mi deve dividere dalle altre figure chiave che ruotano intorno alla persona che soffre, come OSS e fisioterapisti”

 

Guardando avanti, invece, cosa ti aspetti da te stesso in questo lavoro?

“Sogno di lavorare ancora in equipe, e che il mio lavoro sia sempre riconosciuto e valorizzato”

 

Potessi lanciare un messaggio a tutti i tuoi colleghi in questa giornata speciale, cosa gli diresti?

“Gli direi di cercare di apprezzare ogni momento. Come ogni lavoro, quello dell’infermiere può assorbirci molto, ma auguro a chiunque di non smettere mai di sorprenderci per gli eventi e le persone che incontriamo in questo momento storico. Dobbiamo apprezzare quello che abbiamo, e ricordarci del nostro lavoro e del bagaglio professionale importantissimo che non dev’essere pensato come una fatica, ma sempre come un’opportunità di vita importante”


Se dovessi raccontare la tua esperienza come sarebbe? E che titolo gli daresti?

Una storia chiamata Quanto tempo ci vuole per morire? Una vita. Siamo partiti verso l’RSA per dare supporto ad una struttura sanitaria in difficoltà a causa del COVID-19. Fino a quel momento ne avevamo sentito parlare solo sui giornali. Partiamo sicuri della nostra esperienza professionale come infermieri, ed arrivati a destinazione troviamo subito un’accoglienza e una gioia che non ci aspettavamo. Per tutti quelli che hanno deciso di combattere con la loro presenza tra gli ospiti della struttura, stare ed esserci diventa motivo di orgoglio: è l’affermazione di un’istanza etica che caratterizza una piccola comunità di professionisti in trincea. I giorni di lavoro, in termini assoluti, sono pochi, eppure sembrano tantissimi, perché la routine ci assorbe, il ritmo è intenso, le emozioni sono travolgenti. Se mi si chiedessero che cosa ho visto in questa missione, risponderei che la domanda giusta dovrebbe essere: chi hai visto? Con chi hai trascorso questo tempo importante? Ho visto volti, uomini e donne con un nome e con una storia, una storia lunga disseminata di gioie e amarezze, di trionfi e cadute, una storia che ora è sospesa a causa della pandemia. Ho incontrato volti, storie, nomi che in questo momento hanno sospeso contatti con i loro cari. Sguardi spaesati, confusi, anime che desiderano riconquistare la loro identità, sguardi che chiedono ascolto e costantemente mani che accarezzano. Ho visto innanzitutto colleghi e colleghe, il loro amore silenzioso attraverso il proprio lavoro ricco di tenerezza e umanità. Un lavoro pesante e affannoso a causa dei camici, delle mascherine, che soffocano, e da un ritmo serrato. Ho visto l’impegno sempre accompagnato dalla loro consapevole volontà di esserci, di non cedere alla paura. In tutto questo ho imparato soprattutto l’importanza dell’ascolto. Ogni ospite, ogni persona voleva una cosa semplice: un nutrimento dell’anima, desiderava essere ascoltato. Talvolta mi sono immedesimato nelle situazioni difficili di chi stava immobile in un letto, di chi era colpito da tante patologie, di chi subiva la frustrazione di non poter più parlare. A queste persone ho sempre chiesto il permesso di operare per il loro bene. Ma c’è un episodio che mi ha segnato più degli altri. Una brevissima conversazione, poche parole importanti. Ero accanto ad un uomo che avevo appena lavato e cambiato. Si sentiva debole fisicamente e moralmente, e perciò mi chiese: Quanto tempo ci vuole per morire? Una vita! risposi. Ci vuole una vita infatti per morire, una esistenza fatta di tante esperienze che s’incarnano nei nostri cuori e lasciano traccia nella nostra anima, proprio come questa”.