Quanto è importante avere il migliore approccio possibile, nel rispetto della Persona, in merito al tema dell’accompagnamento alla morte? Dall’esigenza di rispondere a questo quesito, che reputiamo fondamentale, è nato uno dei corsi più importanti della Korian Academy.

Riconoscere e comunicare la terminalità”, corso ECM per Medici e Infermieri sulla gestione della terminalità a livello comunicativo, relazionale, etico e legale, si pone infatti l’obiettivo di fornire conoscenze sull’accompagnamento alla morte e sulla comunicazione con i pazienti e familiari.

Un momento di condivisione di conoscenze mirato ad offrire anche indicazioni concrete al personale rispetto alla gestione della depressione e del dolore, e alla pianificazione anticipata delle volontà, oltre che relativamente alle cure palliative. Ma anche condividere con i partecipanti le direttive maggiormente funzionali rispetto alle strategie più efficaci per il contenimento dello stress lavorativo correlato alla gestione di persone in fase di terminalità.

Senza dimenticare, è bene dirlo, l’importanza di approfondire alcune competenze trasversali per il professionista, come lo spirito di squadra: sentirsi parte del proprio gruppo di lavoro, collaborare e comunicare in maniera fluida, contribuendo attivamente in modo visibile e riconosciuto dagli altri.

Per approfondire l’importanza di sensibilizzare questo tema, abbiamo il piacere di presentarvi l’attenta analisi della Psicologa Simona Seu, relatrice al corso della Korian Academy, che ci ha offerto il suo prezioso contributo.

L’equilibrio tra dolore e vita

Secondo la Psicologa, il pensiero della propria e dell’altrui morte è spesso accompagnato da immagini che in qualche modo rappresentano i momenti più importanti della vita vissuta.  Quando si ha il sentore che la morte potrebbe essere realmente prossima, le emozioni possono essere molteplici: dalla paura del niente di Sé al sollievo se già si prova dolore.

Spesso si parla di “dolore totale” come di quella sensazione di disperazione mista a rammarico, accompagnate da un bisogno di resistere alla sua ineluttabilità e talvolta da quello intenso di lasciarsi finalmente “vivere”. Lasciarsi vivere per qualcuno può significare arrendersi, mentre per altri rappresenta l’unica e ultima opportunità di poter essere totalmente autentici ai propri occhi, senza la preoccupazione di ciò che gli altri potrebbero pensare di sé o del proprio valore.

In questa fase della vita, quella appunto vicina alla propria morte, si potrebbe avere la percezione di riuscire a fare un’estrema sintesi della propria esistenza, lucidamente, come se si riuscisse all’improvviso ad essere totalmente presenti in se stessi. Come se si guardasse un panorama più o meno ampio e sconfinato. Se però poi si osserva più attentamente, volgendo il proprio sguardo al significato identitario della vita trascorsa, si potrebbe riuscire a vedere sé in relazione con l’ambiente e gli altri che ci hanno accompagnato più o meno intenzionalmente nel proprio percorso.

In tale frangente potremmo scorgere il valore del nostro impegno nel partecipare attivamente al raggiungimento di obiettivi o tappe di vita per noi importanti. Ogni evento o tappa significativa della vita è infatti reso tale dalla qualità delle relazioni intessute con le persone incontrate lungo il nostro percorso. La relazione con “l’altro significativo” ci ha accompagnato nell’attribuzione di senso nella nostra vita. Tendenzialmente la sensazione di aver lasciato una “traccia positiva” con la nostra presenza in questo mondo è legata all’effetto che noi sentiamo aver avuto nelle vite altrui.

Il vissuto di morte in qualche modo può essere affrontato positivamente, sia quando parliamo del paziente sia del sanitario, nel caso in cui la prospettiva della morte metta in luce gli aspetti di valore della propria vita.  In tale frangente la relazione avuta con una determinata persona significativa per noi, la si potrà leggere dal punto di vista della ricchezza che questa relazione ha prodotto in noi stessi.

Il valore della morte

Questa prospettiva valorizzante la propria esistenza è necessaria, perché dal bilancio positivo delle proprie sensazioni ed esperienze di vita può nascere una motivazione ed energia interiore tale da favorire un atteggiamento positivo anche di fronte alla morte, laddove si continua a riconoscere la propria identità nella salvaguardia della dignità personale.

Da questa visione scaturisce il coraggio e la pienezza nell’affrontare in modo significativo anche il momento della morte, considerata non come fine della vita ma come momento vitale di essa, in cui la persona coinvolta è ancora di più protagonista della propria esistenza.

Se nella relazione con il paziente riusciamo a relazionarci empaticamente, comprendendo assieme tutta l’ambivalenza che il binomio mortalità e vitalità rappresenta per noi esseri umani, diamo spazio al significato che la relazione terapeutica potrà avere in termini di ricchezza e valore esistenziale per la persona.

Sarà fondamentale dare alla morte il valore esistenziale che merita per ciascun individuo, nel rispetto dell’identità e del suo significato personale.

Se nella cura ci si concentra solo sulla dimensione fisica del dolore e della morte si rischia di rimanere imbrigliati nelle trame dell’impotenza di fronte all’ineluttabilità della malattia e del limite della resistenza. L’approccio al paziente al termine della propria sopravvivenza corporea dovrà prevedere un’apertura olistica dei sanitari nei confronti dei bisogni spirituali, che saranno soddisfatti dal riuscire ad attribuire un valore significativo alla relazione con l’altro proprio per la preziosità del momento in cui ci si incontra.

La relazione con l’altra persona può assumere un valore esistenziale davvero importante nella fase terminale della vita in quanto evoca il valore spirituale della stessa nonostante possa definirsi finita nella dimensione dell’individualità corporea. La traccia che lasciamo nell’altro e che viene lasciata in noi attraverso il contatto emotivo arricchisce di significato la vita che può essere concepita in un continuum temporale fatto di sensazioni di percezioni interne ed esterne che possono permanere in eterno attraverso le trame delle vite che si susseguono.

Per usare le parole di Goodman: Solo in questi contesti potenzialmente fusionali e allo stesso tempo differenzianti, dove il senso delle parole e delle azioni è denso di emozione e di qui-e-ora e un nuovo senso può emergere”.

Quindi in conclusione, come dice R. Steiner, mentre durante la vita terrena nessun uomo è in grado di ricordare la propria nascita, per la propria morte invece avviene esattamente il contrario. La consapevolezza di Sé ci permette di risvegliarci veramente al mondo spirituale, ad attribuire un senso alla propria vita nonostante la morte. In questo modo si acquisisce la capacità di percepire la propria esistenza identitaria “oltre la dimensione corporea”, senza la quale quindi la propria esistenza continua ad avere ragion d’essere.

Tale consapevolezza non può far altro che essere avvalorata nella relazione significativa con un’altra persona, laddove la relazione stessa va oltre la materia, oltre la possibilità di rivedersi domani, e oltre la guarigione del corpo.

All’identità, al Sé individuale, viene restituita quella dignità, valore e luminosità che continua a permanere anche dopo la morte.

Bibliografia

Ana Claudia Quintana Arantes, “La morte è un giorno che vale la pena di vivere”. Ed. Tea, 2022;

Angela Padoa Schioppa, “La vita dopo la morte: il viaggio oltre la soglia”, (2003-2011) da Ricerche in www.maria-angela-padoa-schioppa.it;

Guidalberto Bormolini. “Accompagnatori accompagnati. Condurre alla vita attraverso la morte”. Ed Messaggero Padova, 2020;

Vito Mancuso, “A proposito del senso della vita”, Ed. Garzanti 2021;

Piergiulio Poli, “Un senso”, Figuremergenti (Rivista Scuola gestalt Torino) n. 4, 2021

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